La recente introduzione della normativa relativa al bail-in (il nuovo paradigma di salvataggio degli istituti di credito dall’interno, con risorse degli azionisti, obbligazionisti e, quale estrema ratio, dei correntisti) rispetto al paradigma del bail-out (il salvataggio dall’esterno e solitamente con risorse pubbliche) ha portato alla ribalta il tema della solidità delle banche italiane.
Immediatamente l’attenzione è stata focalizzata da un indicatore, il CET1 ratio. Ma cosa è il CET1?
Tale indicatore, molto articolato nella sua determinazione, esprime una percentuale: il rapporto fra capitale primario di una banca (i suoi mezzi propri a titolo di equity) ed i suoi impieghi ponderati per il rischio.
Il Common Equity Tier 1 ratio è, quindi, la misura di quanto i mezzi propri “coprono” un deterioramento degli attivi ponderati per il rischio (il concetto è che risulta più rischioso finanziare un’impresa piuttosto che, ad esempio, un ente pubblico). La pietra di paragone per il CET1 ratio “era” l’8% che Basilea 1 e 2 imponevano quale parametro minimo ma, a tutt’oggi, alla luce dei buffer di capitale introdotti da Basilea 3, è possibile affermare che il 10,5% è il minimo sindacale (attivazione del c.d. conservation buffer).
A ciò si aggiunga che la BCE e la Banca d’Italia col recente processo denominato SREP (Supervisory Review and Evaluation Process) hanno indicato livelli “personalizzati” di CET1 minimi ad ogni singolo istituto.
Un alto CET1 è quindi una buona notizia?
Certamente sì, ma tale indicatore ha due grossi difetti:
1. Fotografa una situazione statica. Se la banca non ha redditività di base anche il miglior CET1 è destinato ad erodersi.
2. Si tratta comunque del capitale degli azionisti. In caso di bail-in essi sono comunque i primi ad essere chiamati a sopportare perdite. Più le banche sono piccole più si osserverà corrispondenza fra azionisti e correntisti.
Si ritiene, quindi, che anche altri indicatori vadano presi in considerazione ed in particolare:
− la redditività core
− il Texas Ratio
La redditività core è un indicatore molto semplice, mette a confronto il margine di intermediazione (margine di interesse + margine da servizi e commissioni) con i costi di struttura della banca.
Tale indicatore consente di capire se la banca genera reddito dalla propria attività tipica ma non solo, più altro è l’indicatore più la banca può accumulare reddito per “resistere” agli scossoni e rendersi patrimonialmente più solida.
Il Texas Ratio (TR) deve questo suo particolare nome al banchiere di RBC Capital Markets, Gerard Cassidy, che lo elaborò ed utilizzò negli anni ottanta per valutare lo stato di salute delle banche texane dopo che la recessione americana ne aveva fatte fallire 400 di piccole dimensioni. Esso è il rapporto fra il credito deteriorato (numeratore) e la somma fra patrimonio netto tangibile e le riserve a copertura delle perdite su crediti (denominatore).
Un TR maggiore del 100% indica che il patrimonio e le riserve non sarebbero in grado di sopportare uno scenario particolarmente estremo di completo azzeramento del valore del credito deteriorato. Giocoforza un TR inferiore al 100% rappresenta quindi un segnale di solidità patrimoniale.
Dove è possibile recuperare i dati per valutare la propria banca?
L’informativa resa dagli istituti di credito è ampia e approfondita, e i dati di base per i conteggi di cui sopra sono rinvenibili nel bilancio di esercizio e nel rapporto ICAAP.
Gli Istituti di credito obbligatoriamente ogni anno entro il 31 marzo devono rendere pubblico sul proprio sito internet il cosiddetto resoconto ICAAP (internal capital adequacy assessment process).
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