Tassa sui robot: arriva la proposta di legge per tutelare il lavoro umano
Pochi mesi fa in Italia è stata presentata una proposta di legge che mira a introdurre una tassa sui robot aziendali. Vediamo le caratteristiche di questa proposta e quanto risponda ai motivi pratici e ideali da cui dovrebbe scaturire.
Tassa sui robot, cosa si intende
Per robot si intendono macchine in grado di svolgere autonomamente il loro compito, cioè senza il comando e il controllo di esseri umani. Ora, una macchina che sostituisce un operaio comporta due svantaggi per la società: toglie occupazione e non produce tasse sul reddito da lavoro.
In varie parti del mondo sono state perciò avanzate proposte di tassazione da applicare alle aziende che sostituiscono il lavoro umano con quello robotico. Per esempio, nella Corea del Sud dal 2018 saranno ridotte le agevolazioni fiscali per gli investimenti in automazione delle aziende.
Un nobile ideale
L’idea di una tassa sui robot circola già da parecchi anni, sostenuta da personalità come Bill Gates, e si basa sul fatto che l’automazione può diventare l’occasione di una rifondazione almeno parziale della società: la tassa dovrebbe infatti finanziare il reddito di cittadinanza, una sorta di stipendio minimo distribuito ai cittadini indipendentemente dal fatto che lavorino o meno.
L’ideale è nobile e ha anche un fondamento economico: senza redditi viene a mancare la ragione stessa della produzione, si tratterebbe dunque di una tassa a vantaggio anche delle aziende manifatturiere. Ma la confusa proposta italiana sembra essere sganciata sia dal problema immediato della nuova disoccupazione da sostenere economicamente sia dalla prospettiva di un futuro reddito di base.
Una proposta vaga e mal formulata
La legge italiana prevederebbe l’aumento dello 0,5% dell’imposta sul reddito delle società, IRES, qualora le loro attività produttive fossero prevalentemente delegate a macchinari intelligenti. La tassa sui robot sarebbe evitabile se quello stesso 0,5% venisse investito in non meglio definite attività di riqualificazione professionale dei dipendenti.
È una formulazione carente che sembra mirare soprattutto a far cassa e a soddisfare le potenti lobby dei corsi di aggiornamento. E c’è da domandarsi se un lavoratore maggiormente specializzato possa reinserirsi in un contesto produttivo cui comunque servirà sempre meno. Ma forse questa nuova fase storica è ancora troppo agli inizi per disporre già di risposte chiare.
Perché è questo il vero problema: in settori come la microelettronica o la micromeccanica la presenza dell’operatore umano è ormai superflua. Ma lo sta diventando anche in ambiti come quello medico o dei trasporti. Proposte di legge come queste fanno sospettare che chi le presenta non abbia per niente le idee chiare su come si stia evolvendo il mondo del lavoro.