Perché offrire lavoro ai rifugiati potrebbe essere un vantaggio per tutti

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Offrire lavoro ai rifugiati potrebbe generare una crescita annuale del Pil di 60-70 miliardi entro il 2025. Alcuni Paesi europei investono da anni per formarli e favorirne l’inserimento lavorativo, ma c’è ancora molto da fare.

In Europa solo 1 rifugiato su 3 lavora entro 5 anni

Dare un lavoro ai rifugiati è un tema che continua a dividere il dibattito politico e sociale. Oggi in Europa soltanto 1 su 3 trova un impiego entro 5 anni. Secondo i risultati dello studio “Europe’s new refugees: a road map for better integration outcomes“, curato dalla società McKinsey, una corretta gestione del fenomeno avrebbe effetti positivi diffusi, come la crescita demografica e l’aumento annuale del Pil di 60-70 miliardi entro il 2025.  Dal 2015 alcuni Paesi europei hanno avviato politiche attive a sostegno della formazione e dell’inserimento occupazionale dei profughi. Il lavoro ne favorirebbe anche l’integrazione culturale e sociale, un aspetto fondamentale perché la maggioranza di loro continuerà a vivere per lungo tempo nel Vecchio Continente. “Dare loro gli strumenti per diventare prima lavoratori e poi cittadini conviene a tutti”, ribadisce Iván Martín, membro del “Gruppo di Ricerca Interdisciplinare sull’Immigrazione” dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona.

I rifugiati che non lavorano sono un costo per la società

Offrire un lavoro ai rifugiati permetterebbe di risparmiare allo Stato e ai cittadini. Secondo lo studio “The labour market integration of refugees“, commissionato dal Parlamento Europeo, “la mancata partecipazione del mercato del lavoro dei rifugiati causa costi elevati per la società, per i potenziali datori di lavoro e per i rifugiati”. I legislatori devono velocizzare la procedura di asilo e i tempi di accesso ai percorsi formativi e nel mondo del lavoro.  Affinché i rifugiati compiano il salto per diventare lavoratori, sono però necessarie norme “ad hoc”, risorse economiche e soprattutto una precisa volontà politica.
Dal 2015, si sono mossi in questa direzione molti Paesi europei – salvo Francia e Regno Unito – attuando delle politiche attive per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro ai rifugiati. Finora le azioni intraprese sono state 94 e le risorse economiche messe in campo notevoli, ma non bastano per vincere la sfida.

20 anni per raggiungere il livello di inserimento lavorativo degli europei

Per agevolare l’integrazione lavorativa dei profughi, dal 2015 l’Austria ha investito 70 milioni di euro, mentre i Governi federali tedeschi ha dato vita a specifici programmi con lo stesso obiettivo, dai corsi di lingua al coaching. La Svezia ha iniziato sin dal 2010 a potenziare i servizi per i richiedenti asilo. A smorzare l’entusiasmo, arrivano però gli ultimi dati Ocse, secondo i quali bisognerà aspettare altri 20 anni affinché i rifugiati possano raggiungere lo stesso livello di inserimento lavorativo dei cittadini europei. “Tuttavia – sottolinea Martin – è necessario fare una precisazione: paragonare l’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo con quello degli europei è un errore. Devono fare i conti con i traumi legati al viaggio, con le difficoltà di apprendimento della lingua: hanno esigenze specifiche che devono essere affrontate”. A maggior ragione sono necessari maggiori investimenti nelle politiche del lavoro e nella formazione per i rifugiati, a vantaggio di tutti.

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